
9 Febbraio 2024      di Polo Nazionale Ipovisione
9 Febbraio 2024
di Polo Nazionale Ipovisione
Cosa accade a chi perde la vista e come ci si abitua ad una condizione nuova? Marco Marcon, paziente del Polo Nazionale Ipovisione, è una testimonianza di resilienza. Le parole di un diario che, con onestà, racchiude le esperienze di un uomo che ha dovuto imparare a guardare “attraverso un buco della serratura” per diventare un abile equilibrista sul filo della vita
Da 3 a 5
Sono nato al tramonto degli anni 50 e da bambino ho vissuto nei mitici anni 60. Vivevo in una zona periferica, dove, girato l’angolo, c’era ancora l’erba, dove potevi andare a giocare a pallone nei prati se il pastore aveva portato via le pecore, dove le partite erano contro i bambini degli altri condomini o contro i baraccati e se vincevi dovevi scappare, dove ogni estate, le lunghe gru edili prendevano il posto delle lucciole ed i prati venivano inghiottiti dall’asfalto.
L’aria era frizzante e allegra, perché la guerra era ormai lontana e tutti avevano voglia di ricominciare e di costruire un mondo migliore. Per un bambino la vita è un gioco, tutto quello che succede è lo spunto per inventarne uno nuovo. Si giocava nei cortili o sui marciapiedi, ai cui lati erano parcheggiate ancora poche automobili di latta, alcune, ferme per intere settimane, erano coperte da un telo grigio su cui si depositavano gli aghi di pino.
Giocavo a campana, con il gesso o un mattone rotto disegnavo una pista e i miei tappi di bottiglia diventavano ciclisti famosi o auto da corsa. Avevo tanti amici per scambiare le figurine, giocare con le biglie, oppure a “mondo”, “un due tre stella”, “nascondino”. Questo ultimo era il mio gioco preferito, quando riuscivo a fare “tana libera tutti” mi sentivo un eroe, mi nascondevo dietro una siepe, appiattito dietro un sottoscala e non uscivo fino a quando era ora di cena; a quel punto i miei compagni di gioco erano già a casa ed a cercarmi ci pensava prima il portiere, poi disperata o meglio rassegnata la mia mamma.
Si giocava ad emulare quello che trasmetteva la televisione. All’epoca era un cubo di legno con uno schermo in bianco e nero, c’erano solo due canali della RAI e per cambiare programma bisognava alzarsi e girare una manopola, poi quando spegnevi la TV si sentiva un sibilo e sullo schermo si vedeva un puntino bianco che svaniva quando il tubo catodico si raffreddava. Il telegiornale veniva trasmesso solo all’ora di pranzo e della cena ed era sacro, appena iniziava la sigla non potevi fiatare, non poteva volare una mosca. Le notizie, le trasmissioni e i film erano oggetto dei discorsi di tutti e il giorno dopo i bambini diventavano: cowboy, antichi romani, marines, soldati, religiosi visionari. Un giorno mia sorella, che aveva visto un film su Fatima, è diventata una pastorella che fissava le nuvole e pregava la Madonna tra un palazzo finito ed uno in costruzione. Per diverso tempo, ho giocato all’assassinio di Bob Kennedy.
Un giorno, con una colt di plastica, ho sparato a Sciran Sciran alias il mio amico Vittorio che era entrato perfettamente nella parte. Gli ho sparato nell’orecchio e, con mia sorpresa, Vittorio ha iniziato ad urlare poi è schizzato via come un razzo; una signora affacciata sul cortile mi ha sgridato, io ignaro del dolore procurato, ho detto: “che esagerazione, gli ho solo sparato con una pistola giocattolo” poi per dimostrare che Vittorio aveva esagerato, mi sono sparato anche io dentro l’orecchio, un boato mi ha stordito, ho provato un forte dolore, ho sentito un fischio e sono diventato sordo per qualche minuto ma per orgoglio ho urlato “visto, mica sono morto”, poi sono corso via facendo finta che non mi era capitato nulla.
Le notizie erano locali, la cronaca nera ricordava la natura degli uomini, un bombino di nome Ermanno ero stato rapito, l’orco sembrava dietro la porto e le mamme erano all’erto, “non prendere coramelle do nessuno, neanche do chi ti dice: – sono tuo zio-“; ho preso l’ordine alla parola e poco dopo mio zio Mino si offese a morte.
Il tempo scorreva, Carosello chiudeva il mio giorno, il pulcino Calimero entrava nei miei sogni mentre mamma e papà aspettavano che il puntino luminoso dello schermo sparisse.
Din-Don-Dan
Era Pasqua, le campane della chiesa di periferia (una specie di grande garage) suonavano a festa. lo avevo il morbillo e non potevo uscire. Ero a letto ed aspettavo che il mio papà e la mio sorellina tornassero con “Topolino” e magari con un uovo di cioccolata. Alle 11, mentre nell’aria si diffondeva il profumo del ragù e quello delle potate arrosto, sentii il suono del campanello della porta, poi la voce allegra di Annalisa, quella dolce della mamma e quello festosa di papà, pensai che l’attesa fosse finita e che avrei ricevuto il giornalino.
“Papà alza le serrande, Annalisa accendi lo luce”
“Sono già su, la luce è accesa”
“Non scherzate, perché non aprite le finestre, perché non accendete la luce?”
Non ci vedevo e non capivo cosa stesse succedendo. Non ero spaventato, solo infastidito. Ho sentito vociare concitatamente, poi le frasi bisbigliate hanno lasciato il posto a qualche domanda: “quante sono? che colore è questo? che coso è quello?”.
Non capivo che accadeva, credevo fosse uno scherzo: “basta, alzate la serrando, accendete la luce, datemi il giornalino”.
Due telefonate e mi sono sentito avvolto da una coperto, trasportato lontano tra silenzi e domande piene di angoscia: non vedevo l’espressione del viso di mia mamma, ma sentivo la suo mano che mi stringeva più forte del solito, la sua voce strozzata dal dolore.
Poi, dentro un letto che non era il mio, qualche puntura, una maschero con un odore strano mi ha fatto addormentare. Mi sono svegliato ed era ancora buio.
Il buio
Pochi giorni primo del buio ero “Occhio di Lince”, “Penna di Falco” ero “Lo sceriffo” che fulminava i cowboy anche se erano seduti nella panchina del civico 110 o dietro un albero di un giardino lontano.
Dopo, non ero più sopra la mia bicicletta rosso, non correvo dietro le amichette da tonare, non saltavo su di un piede sopra le caselle della campana, ero in una stanza di una clinica, in compagnia di un vecchio attore, famoso non per come recitava ma perché reclamizzava su Carosello un panettone dicendo: “ullallo è una cuccagna”.
Non capivo ancora che cosa mi stesse accadendo, non piangevo o altro, pensavo di guarire. Pensavo che fossero tutti motti, perché nello mia stanza avevo una televisione ed una pista di automobiline. Solo con il tempo ho capito che erano lì per sapere se ci vedevo o se simulavo la cecità, qualcuno mi dava in mano il pulsante e mi diceva “via, dai” io per educazione lo schiacciavo e olla primo curva l’automobilina usciva, seguiva un vociare deluso a cui mi sono presto abituato.
Non so quanto sono stato nello clinica, ma non ero spaventato, credevo di guarire e tutto mi sembrava un gioco.
Facevo finta di giocare o nascondino, aspettavo di uscire dalla tona, ma ogni giorno ero sempre più lungo e noioso. Non vedevo e stavo abituandomi ad usare meglio gli altri sensi. Per certi versi era un vantaggio: non vedevo le facce spaventate, l’angoscia, le smorfie, non vedevo “quante sono queste?”, il dottore noioso che mi ordinava “guarda questo punto” e che io pensavo fosse un cretino, purtroppo non vedevo anche il regalo dello zio di turno, i giocattoli, i cartoni animati, ma soprattutto la mamma, mia sorella, il papà. Nel frattempo, le voci, i suoni, il tatto, gli odori, mi portavano in un mondo dove le immagini non erano quelle reali, mo quelle ideali dei sogni.
C’era una suora con uno voce dolcissima e io pensavo fosse una fatina; sentivo l’odore della naftalina e capivo che era mia nonna con la pelliccia; toccavo gli oggetti, tracciavo con le dita la loro sagoma e cercavo di indovinare cos’erano; la mamma la riconoscevo per il passo delicato, il profumo della pelle; Annalisa per il passo saltellante; mio padre per capire se ci vedevo o meno cercava di non farsi sentire, si awicinava piano piano, ma io sapevo che era lì o guardarmi in silenzio, il suo fiato affannato, l’odore del suo sudore misto al Floid lo sentivo da lontano, ma lui non lo capiva, per cui o un certo punto ho fatto finta di distinguere lo sua ombro per non farlo troppo soffrire.
Ero schizzinoso e se nel mio piatto c’era un cibo grasso, qualcosa che non mi convinceva, una bistecchina brutta, un puntino verde, non mangiavo. Senza luce, al buio, questo non accadeva più, vinceva il profumo, l’odore, La consistenza del piatto, i sapori e tra un pasto e un altro ammazzavo la noia. Ogni cosa che era sul piatto la immaginavo bella e diventava appetitosa: un’ala di pollo, che mai e poi mai avrei mangiato, era meglio di una torta al cioccolato; le patate tagliate male diventavano perfettamente dorate e rotonde come quelle disegnate da Wolt Disney. Tutti diventavano cartoni animati, se uno aveva la voce grave diventava Gamba di Legno, se La sua voce era dolce e simpatica Tamburino, il coniglio di Bamby. IL tempo scorreva, io sentivo le favole di chi mi voleva bene, giocavo con le mani, forse provavo a suonare o a cantore ma non ero Jose Feliciano, Stewe Wonder, Roy Charles, non avevo La voce di Bocelli e nel mio caso era meglio il playback.
Ero però un bambino fortunato, che pensava di guarire e aveva al suo fianco qualcuno che gli tenevo sempre la mano e gli parlava con dolcezza.
Le ombre
Sei mesi di buio totale sono tanti, ma non una eternità per chi ha la sola preoccupazione di crescere e non sa ancora cosa dovrà affrontare. Tre giorni sono sufficienti per capire che il filo da seguire non è più quello che brilla. Gli occhi ingannano spesso l’anima, quello che è bello da vedere non è sempre la coso più buona. Chi vive al buio, quando monto su una macchina non sa se è bella o brutta e può sognare di essere su un’astronave anche se sta sopra una carretta.
Al buio le cose che valgono non sono quelle costose, ma quelle utili: i diamanti sono solo inutili pietre dure. Le persone non sono belle o affascinanti per il loro aspetto, per il loro vestito, per la macchina che guidano, perché hanno un Rolex al polso, perché portano una minigonna o i tacchi a spillo, ma per i loro modi, per la voce gentile, per i pensieri profondi, le parole che raccontano sentimenti.
Al buio prima del tatto, contano i rumori, gli odori ed i profumi. Al buio le persone le riconosci do come camminano, dall’odore, qualcuno profuma di pulito, qualcuno di sudore, qualcuno di biscotto e miele. Le pellicce intrise di naftalina sono solo puzzolenti; i soldi carta consumata intrisa di sudore. Al buio non è importante avere un maglione bello, mo uno morbido che riscalda.
Per un cieco il panorama non è lo skyline della città, ma la brezza che gli accarezza la pelle, il sole che gli scalda il cuore, il suono della natura, il rumore delle onde, le gocce che cadono dal cielo, il cinguettio degli uccellini, il rumore dello città che riprende a lavorare o che piano piano va a dormire. Quello che gli altri vedevano alla tv, io lo sentivo. I film non erano più una sequenza d’immagini, ma di suoni, musica, rumori, silenzi, parole e dialoghi. Con gli occhi chiusi, i film di oggi, non raccontano una storia, ma uno sequenza di esplosioni, crash, frenate, stridi di gomma, vetri in frantumi, grida e rumori fastidiosi, intervallati da musica non sempre gradevole. Quando proiettano un film come missione impossibile, provate a chiudere gli occhi, poi cercate di concentratevi sui dialoghi. Pensate che allo fine, dopo urla e mitragliate, esplosioni e crash, vi rimarrò uno storia do ricordare? Per chi non può usare gli occhi, la civiltà non è il Colosseo, il Pantheon, i Fori Imperiali, un vecchio monumento più o meno conservato bene, un bellissimo quadro.
Per un cieco, e anche per chi pur vedendo non può camminare da solo, la civiltà è poter uscire senza trovare insidie, camminare su un marciapiede senza buche, poter attraversare la strada senza pensare che potrebbe essere l’ultima, non inciampare su dei rifiuti, non urtare un’auto parcheggiato a spina sopra il marciapiede, non trovare la strada chiusa da una moto parcheggiata su uno scivolo o sulle strisce pedonali, poter entrare in un negozio senza dover superare barriere, senza dover cercare a tastoni l’uscita. Poter camminare da soli senza pensare che sia impossibile.
lo, fortunatamente, non ho dovuto subire il disagio di chi, colpito da una malattia che ne limita i movimenti, è costretto a vivere agli arresti domiciliari per le nefandezze dei politici e la mancanza di senso civico dei tanti concittadini furbetti. Si può sempre sperare che le cose combino, ma non basta essere capaci di adottarsi ai nostri limiti, se gli altri, invece di aiutarti a sopportarli, con lo loro inettitudine, arroganza ed ignoranza ne creano costantemente altri.
Mi piacerebbe che durante il giorno dedicato ai non vedenti, tutti gli altri provassero a bendarsi gli occhi; che durante quello dedicato olla disabilità ognuno girasse con una sedia a rotelle. Chiudete gli occhi e provate a farlo, provate ad andare in un bar, in un bagno, in una farmacia, in un ufficio, provate a prendere un autobus, a scendere da un marciapiede, ad attraversare la strada, cercate di capire se quello che per voi normalmente è come bere un bicchier d’acqua diventa improvvisamente impossibile.
Le ombre che ho iniziato a vedere non erano quelle cinesi, ma il segno che percepivo lo luce. Il buio piano piano veniva dissolto da uno spiraglio di luce tenue. Ci sono voluti dei mesi, per iniziare a distinguere le cose. lo non capivo l’entusiasmo di chi mi stava intorno, quando riconoscevo una mela da una pera. Piano, piano l’ombra di mia madre non sembrava più quella di mia nonna. In realtà, riconoscevo le cose con il tatto, il cibo dalla forma e dall’odore, le persone dal profumo, dal passo e dal rumore delle scarpe.
Capivo che mia nonna stava entrando nella mia stanza prima che gli altri la vedessero, poi per amore facevo finta che l’avevo riconosciuta dalla sagoma e non dallo puzza di naftalina che diffondeva la suo pelliccia. Tic-tac tic-tac ed ecco la dottoressa, dr dr tun tun tun ecco l’infermiere con il carrello. Mio padre lo sentivo prima ancora che salisse le scale, la sua voce da domatore di leoni rimbombava dà per tutto. Il pranzo, la cena, le visite, spezzavano una vita in quel momento apparentemente noiosa. Nessuno sapeva che in realtà, anche se non potevo correre, giocare o pollone, disegnare e colorare, stavo diventando un equilibrista che cammina su un filo invisibile, mi stavo allenando a giocare a mosca cieca ed ero sicuro che sarei diventato un campione ….
Vista nuova vita nuova
Quando un bel giorno, ho percepito un’ombra, chi mi stavo accanto ha gridato al miracolo e poco dopo i miei genitori mi hanno portato a Lourdes. All’epoca andavano di moda i film religiosi, tra cui Marcellino Pane e Vino, quelli su Fatima e sulla Madonna di Lourdes.
Ai miracoli non ho mai creduto, anche perché penso sempre alla storiella di uno signora che avendo un braccio storpio, chiedeva in preghiera a santo Antonio di far sì che tutte due le braccia fossero uguali e per miracolo ciò avvenne, peccato che adesso quel tizio ha tutte e due le braccia storpie. In ogni caso, avevo ripreso la mia vista, ma non era come quella di prima. Il mio campo visivo era diventato piccolo piccolo appena il 2% rispetto a quello normale. Ci vedevo però, e non era poco, ero piccolo e questa riduzione ero tutta do capire.
I medici non erano in grado di valutare bene la cosa, perché lo strumento che usavano per misurare il campo visivo ero “il globo di Goldman”, un attrezzo che mi sembrava uno specie di video gioco: dovevo sedermi su una sedia, chiudere un occhio, attaccarmi con il mento alla sfera che si aprivo davanti, guardare fisso un forellino, poi spingere un pulsante quando vedevo una pallina luminosa che appariva e scompariva sullo parete interna della sfera.
Il medico tracciava i punti che vedevo, la loro ubicazione e poi valutava più o meno quanto era il mio campo visivo. Ma per me era un gioco, invece di stare fermo immobile, spostavo gli occhietti a destra e a sinistra, su e giù e drin, drin, bravo!
Capivo che i miei genitori erano felici quando vedevo i puntini e io mi sbrigavo a suonare il campanello. Vedevo il mondo da un buco della serratura, che di notte diventava buio, perché’ la parte centrale della retina non è quella che serve lo notte, ma non l’ho capito subito. Le cure al cortisone, l’impossibilità di correre, andare in bici e muovermi, mi avevano fatto prendere qualche chilo di troppo, allo specchio non ero più il chiodino che scottava come un grillo, ma uno dei tre porcellini.
Durante la cecità avevo vissuto bellissime sensazioni a cui avevo abbinato immagini fantastiche e volevo quindi provarle nuovamente pensando che avrai visto quello che immaginavo. Allora, quando per monitorare la mia salute, sono andato nuovamente in clinica, mi sono accorto che la stanza dove ero ricoverato non era come me la ero immaginata: il letto non era colorato e morbido, ma ero freddo e di metallo; la suora con la voce di miele non era una fatina, ma una signora grassottella con i baffi; il pollo che mangiavo con ingordigia ero brutto e spelacchiato, anche le patate non erano rotonde e dorate ma erano buone lo stesso. Solo il toast era uguale a come me lo ero immaginato, ma non era così appetitoso, perché sul bancone del bar potevo vedere dei dolci belli ed invitanti che mi distraevano.
Mi muovevo guardando il mondo attraverso un buco della serratura ed ero come un equilibrista che doveva camminar e su di un filo. All’inizio sono caduto, ho urtato muri, sono inciampato su gradini, ho perso tre denti, ho vinto tre punti sulla testa, due cicatrici sulle ginocchia, tante spellature, un bozzo sulla stinco, più di un livido sulla faccia, due dita dei piedi rotti, ma non ho mollato, ho iniziato piano piano a fare primo un metro, poi un altro, fino a diventare sicuro, disinvolto, tanto da riuscire a camminare seguendo un filo di luce sospeso tra due canon, con quella naturalezza che faceva pensare che la mia visto non era poi così male per cui se sbattevo o inciampavo non ero più uno che non ci vedeva, mo solo un bimbo distratto.
Da subito, mi sono allenato ogni minuto, ogni ora, ogni giorno a camminare seguendo un puntino e a forza di dai, di cadute e risalite, sono diventato l’equilibrista più forte del mondo.
Insomma, non pensavo di essere un non vedente, o come si dice a Roma un “cecato”, ma un una specie di super eroe di nome Ocram Nocram che poteva fare ciò che gli altri normalmente non fanno.
Adattamento
Per capire come realmente ci vedevo, ci ho messo tanto tempo. Il mio campo visivo era molto piccolo, ma i mei occhi si muovevano veloci e non sembrava così piccolo. Ma al colar del sole o in un ambiente buio le cose cambiavano drasticamente.
Di notte o in una stanza scura, la parte centrale della retino, anch’esso rovinata, non si adattava alla poco luce e tutto diventava più difficile. Prima di capire veramente i miei limiti, ne ho prese di botte ed è passato anche tanto tempo. Da bambino il problema veniva fuori durante i giochi, se non stavo attento, non fissavo continuamente il pallone, questo usciva dalla mia portata e per trovarlo era faticoso.
Le tante botte, mi hanno fatto cambiare postura, ora cammino piano piano, il busto in avanti, con passo felpato, i miei piedi sono tattili, a volte mi servono per trovare gli oggetti che cadono, le mani in avanti in modo discreto mi parano da eventuali ostacoli, i rumori mi orientano, il cappello da baseball lo uso come un paraurti, la visiera mi protegge dai pali, in tasca ho mille lampadine che con cui illumino la strada.
Da grande il problema, a volte piuttosto comico, è diventato il momento in cui devo stringere la mano a qualcuno. Un giorno, ad esempio, un avocato mi ha teso la mano mentre lo guardavo negli occhi e siccome rimanevo impassibile ha pensato che non lo volessi salutare, che ero un villano, un gran maleducato, da un certo punto di vista quando accadeva sembravo cattivo. Gli episodi erano però anche molto comici.
Il primo livido, mi è servito per capire come sono duri i pali della luce, correvo sul marciapiede felice e ho preso un palo, sono rimasto a terra e mi sono trovato seduto dentro un negozio da parrucchiere con sopra il casco per asciugare i capelli e intorno tante mamme dei miei amichetti, mi hanno fatto respirare l’acetone, io sono schizzato via senza dire una parola.
Da adolescente mi sono capitate le cose più buffe perché non mi mettevo limiti, volevo fare tutto quello che facevano i miei amici, ma non sempre era possibile. Durante una partita notturna ho prima dato un calciane ad un mio compagno di squadra, poi ho sgambettato l’arbitro che correva verso la mia porta.
Davanti all’ingresso di un negozio c’era un cane lupo con il pelo corto marrone-giallo, io che davo appena un’occhiata alle cose, l’ho scambiato per uno zerbino e mi sono pulito le scarpe, il cane si è spaventato, il suo padrone mi ha preso per un pazzo criminale.
Al bar mentre aspettavo al bancone il mio coffe, non mi sono accorto che mi ero messo tra due amici e mi sono bevuto il coffe di uno dei due e ho appoggiato il gomito sopra un krapfen. In discoteca ci andavo, ma oltre a non vedere nulla, la musica alta mi toglieva altri riferimenti, andavo al centro della pista e ballavo fino a che non veniva a riprendermi qualcuno che prima mi diceva: “ammazza quanto balli è tardi andiamo via”. La verità era che non riuscivo a tornare nel salottino dei miei amici, una volta ci avevo provato, ma avevo sbagliato gruppo.
Mentre passeggiavo una poveretta che chiedeva l’elemosina in ginocchio era fuori dalla mia portata e gli ho messo un piede sulla schiena, sembravo un Naziskin.
A volte facevo cose pericolose senza accorgermene: per superare una fila ho scavalcato una ringhiera e ho camminato su di un cornicione di un ponte senza farci caso, fino a quando ho incontrato gli occhi sbigottiti di alcuni passanti.
Ne combinavo una dietro l’altra, entravo nell’ascensore e credendo di essere solo, schiacciavo in un angolo una ignara vecchietta, mi appoggiavo sul bancone del bar mettendo un gomito sopra un tramezzino, sembravo Mister Magoo; dentro un negozio ho visto un maglione che mi piaceva, ho cercato il suo prezzo girando la parte inferiore, ma il maglione non copriva un manichino ma una signora che si è scansata e mi ha preso per un maniaco. Erano gli anni della disco music. ..
La scuola
A scuola ero sempre seduto al primo banco. La cosa mi costringeva a stare attento durante le lezioni, ma poi a casa non avevo bisogno di studiare più di tanto. Andavo abbastanza bene, soprattutto nelle materie scientifiche. In italiano andavo bene nelle interrogazioni orali, ma non sempre nello scritto. Il fatto è che ci vedevo male e facevo molti errori di ortografia. Le doppie non le azzeccavo sempre, in più spesso scambiavo La f con La v, la b con la p, la d con la te così via. Un giorno invece di scrivere: la farfalla non vola in inverno, ho scritto: la Varvalla non fola in inferno. Ho preso un brutto voto ed è finita lì, oggi avrebbero detto ai miei genitori che ero dislessico e chi sa cosa avrebbero dovuto fare. Oggi, per fortuna uso il correttore ortografico e posso sbagliare le doppie, le lettere e poi in fase di correzione riderci sopra ….
Gli amici
Quando una persona non è completamente autonoma, trovare degli amici che non te lo fanno pesare è una cosa bellissima. Per fortuna io ne ho trovati quanto basta per non sentirmi solo. Quelli che mi venivano a prendere sotto casa, quelli che mi accompagnavano, quelli che di notte sapevano che era meglio guardare anche per me.
I primi amori
Ero un bel ragazzo e fino a 18 anni non ero diverso dagli altri, anzi. IL mio modo di guardare intensamente, di muovermi, mi rendeva affascinante, particolare. Gli appuntamenti erano di pomeriggio e gli autobus bastavano per muoversi. Dopo i 18 anni, quando inizi a vivere la notte, qualcosa è cambiato, non potevo andare a prendere Le ragazze sotto casa, né portarle in giro, né riportale a casa. Usavo il Taxi, spiegavo che potevo guidare solo dì giorno, i miei Limiti non mi hanno impedito di vivere qualche amore, ma non è stato facile. Dovevo sempre spiegare come ci vedevo, qualcuna lo capiva e andava oltre, qualcuna no e finiva lì…
La mia famiglia
La mia famiglia di origine prima e quella che ho creato poi sono al centro del mio mondo intimo e io sono parte di loro. Mi piacerebbe scrivere di tutti un po’, dando giusto spazio a chi mi ha dato e a chi continua a darmi, ma questo è un racconto breve, per cui per ora preferisco tenere per me sia i bei ricordi che quelli brutti, le mie speranze, le mie preoccupazioni i miei desideri.
Il lavoro
Il mondo del lavoro è spietato, per questo per non essere penalizzato ho finto di non avere handicap. Mi sono allenato per anni, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. A forza di dai, sembravo solo un tipo o molto concentrato o molto distratto. Ero come un equilibrista che cammina su un filo a 100 metri da terra, disinvolto, sicuro. Ma diversamente da Lui non potevo vantarmi, la mia abilità serviva per nascondere i miei problemi, per non essere ferito, per non sentirmi dire “cecato”.
Ho vissuto così seguendo un filo di Luce, un rumore, una voce, il mio handicap e La mia fatica non si percepivano. Non so in che modo e con che incoscienza sono riuscito perfino a prendere la patente, a guidare una moto e un’autovettura, avevo una tecnica di guida particolare, di notte naturalmente non potevo guidare e prima di mettermi alla guida cercavo di studiare la strada, dovevo evitare le gallerie e se capitava mi tenevo a breve distanza dall’autovettura che mi precedeva, non seguivo la strada ma Le luci posteriori.
Da ragazzino se nessuno ti aiuta a capire i tuoi limiti, a pensare che prima o poi dovrai pagarne le conseguenze, se nessuno ti fa ragionare su quello che dovrai affrontare nel futuro, rischi di seguire una strada sbagliata e io regolarmene l’ho seguita, per cui invece di trovarmi un lavoro di concetto, qualcosa che non richiedesse spostamenti, ma solo l’analisi di documenti, di bilanci o un altro lavoro simile, ho intrapreso la professione di mio padre, che ricostruiva incidenti stradali gravi.
Per fare questo lavoro, bisogna essere dinamici, andare a vedere il luogo dell’incidente anche di notte, visionare i veicoli danneggiati, fare rilievi foto planimetrici, incontrare i clienti, gli owocati, i giudici, partecipare od udienze. Tutto ciò, naturalmente non era adatto ai miei limiti, ma solo mia madre ho cercato di farmelo capire, mio padre in tal senso si è rilevato ceco e sordo: ceco perché non voleva vedere i miei limiti, sordo perché non volevo sentire quello che gli diceva mia madre e quello che gli hanno detto più medici.
La vita è così, ho sfidato i miei limiti e non so nemmeno io come abbia potuto svolgere un lavoro del genere. Mi sono organizzato, mi sono trovato una serie di collaboratori che mi facevano anche do accompagnatori e via per più di 45 anni ho fatto finta che ci vedessi perfettamente. Certo, era particolare che non mi muovevo mai da solo, era singolare che delegavo così tanto il mio collaboratore, ma la gente non se ne preoccupava più di tanto ed io andavo avanti così, consapevole che dovevo cercare di guadagnare i soldi per due persone.
Il viaggio
Come per tutti anche il mio viaggio è iniziato appeno sono apparso sulla terra, gridando e piangendo perché mi avevano separato dallo persona che mi aveva generato. Con il candore tipico dei bambini, ho iniziato il mio viaggio, a fare i primi passi e sono cresciuto, seguito da un filo invisibile di amore che mi illuminava la strada. Poi il mio motore ha subito un contrappasso, ho perso un cilindro, l’impianto di raffreddamento ha iniziato a funzionare poco. Mi sono fermato per un momento, ma poi superato il panico, seguendo un filo invisibile di amore, ho imparato a guidare con meno foga, a risparmiare il carburante, a seguire la strada a luci spente nella notte. Nel frattempo, non ho pianto per quello che avevo perso e non potevo più avere, ma ho iniziato a utilizzare sulla mia macchina, tutti gli altri strumenti che normalmente non vengono usati. Ho iniziato a seguire il rumore, i suoni, a riconoscere le persone dalla voce, il loro umore dal loro tono, riconoscere i luoghi dal profumo del mare, della terra e dei fiori, seguire il contorno delle cose con il tatto, la dolcezza del corpo dal calore. In questo viaggio sono stato accompagnato da chi, in silenzio, con amore mi seguivo da lontano, mi aiutavo, mi comprendevo, mi rendeva più gradevole la strada, la illuminava con il suo amore e io pensavo che tutte le persone fossero così, che tutte seguissero il filo luminoso dell’amore.
Mi sono abituato ad un mondo puro, dove non avevo bisogno di chiedere aiuto, dove, non dovevo alzare la voce per far rispettare i miei diritti, per far capire lo fatica che facevo per andare avanti. Purtroppo, crescendo l’animo candido si macchia e lungo la strada di persone così, ne ho incontrate poche.
L’animo puro, il candore, la comprensione donata con amore e dolcezza in silenzio, il calore di chi ti vuol bene a prescindere dai tuoi limiti, dalla tua forza o meno, diminuisce costantemente ogni istante in cui La meta è più vicina.
Per tutti noi il viaggio del nostro corpo finisce con la morte, prima di raggiungere questa meta ci sono delle tappe da percorrere, ma non sono tutte obbligatorie, qualcuno si laurea qualcuno no, qualcuno si sposa, qualcuno no, qualcuno diventa ricco ma magari povero di spirito ed arido e qualcuno no, ma alla fine il traguardo è lo stesso.
Sarebbe bello arrivarci con il sorriso, con la consapevolezza di poter incontrare le anime a cui si è voluto bene, un mondo di pace.
lo seguo ancora il filo luminoso che mi illumina il cuore, seguo la strada tracciata ma non sempre è facile. Per farmi accettare ho nascosto il mio handicap, ho finto di non avere paure, ho celato i miei limiti, ho fatto finta di non avere bisogno di aiuto, ho vissuto come un equilibrista sopra un filo esercitandomi ogni secondo per non cadere a terra.
Tutti noi siamo unici, diversi l’uno dall’altro e io che ho nascosto i miei problemi, oggi vorrei gridarli. Non so in che modo, chi avrà voglia di ascoltarli, chi mi darà L’opportunità per poterlo fare, ma sono certo che Le tante persone che seguono un filo luminoso di amore e tutti quelli che come me pensano alla condivisione come il collante che ci unisce in un unico destino, dopo aver letto il mio racconto, saranno più consapevoli del dolore che accompagna i portatori di handicap e riusciranno a vedere dietro i loro occhi e al loro sorriso la fatica che fanno per andare avanti. Sapranno guardarsi indietro, cercheranno di non lasciare alle spalle quelli che non possono correre come loro, non penseranno che stanno perdendo tempo per aspettarli, ma consapevoli dell’importanza che riveste la condivisione di gioie e dolori, gli terranno la mano e tracceranno la strada percorsa con quel filo di luce che tutti noi dovremo seguire, così che rimarranno vivi, anche quando, arrivati alla meta, il Loro viaggio terreno sarà finito.
Ocram Nocram